INTERVISTA AD ALFREDO DE PALCHI
      a cura di Roberto Bertoldo
RB. Tu hai vissuto in Italia, in Francia e negli Stati Uniti. Come e quanto hanno individualmente influito questi Paesi, dal punto di vista sia culturale sia politico, sulla tua poesia?
ADP. Preambolo:  Nel penitenziario di Procida, tra una ventina di prigionieri politici che  occupava il camerone, ebbi l’immensa fortuna di incontrare e di conoscere il  trentaduenne ufficiale dell’esercito Ennio Contini. Io ne avevo appena  diciotto. Ricorda che parlo di tante cose anche in nome di Ennio, perché  l’Italia, oltre a mantenere non democraticamente da decine di anni al potere  politico le imbarazzanti stesse facce da sberle di destra e di sinistra,  corrotti criminali delinquenti ladri, ha quella letteraria divisa anch’essa in  due blocchi, uno degli eletti: grande editoria; l’altro del gregge: piccola  editoria.
    Per essere considerati tra gli eletti non si capisce bene cosa occorra avere:  talento? Non sempre. Per essere considerati del gregge non è necessario  spoetizzare. La situazione si mischia, però senti l’aria soffiarti verso gli  eletti o il gregge. Il blocco degli eletti è insignito di poteri che governano  quello del gregge che, belando sottovoce, accetta la propria funzione di capro  espiatorio o, peggio, di minore. Questa invisibile siepe aggrega il gregge  pacifico nel proprio pascolo, rifiuta di sommuovere il fondo delle acque  inquinate. Oppure qualche pecora si azzarda a belare ruffianerie al sospettato  inclito con la delusione di sentirsi una eletta. Se invece una pecora  timidamente si ribella, sottovoce bela all’orecchio di quella accanto: per  carità non facciamo chiasso.
    A cavallo della siepe si profila il dissidente,  l’emarginato, che non si propone agli eletti e al gregge, che non offre loro la  soddisfazione di farsi sgozzare: è l’ideale fantomatico Don Chisciotte  provocatore che non sussurra ruffianerie, che parla ad alta voce.
    Eccomi allora alla tua domanda, alla quale rispondo così: i carnefici comunisti  della mia zona natale, mitomani di una resistenza inesistente fino all’arrivo  delle truppe alleate, non spararono una fucilata ai soldati tedeschi in  ritirata che dinamitavano i ponti antichi di Verona.
    Già a guerra finita, i comandanti  colonnelli, anonimi e non, come i Luigi Longo, i Sandro Pertini,  agirono da criminali comuni. Tutto ciò è ancora adesso nella falsità della  resistente pretesa e nel giro della stampa. Però dimostrarono grande eroismo traumatizzandomi  il corpo gracile con sevizie portate addosso per un paio di anni, di spararmi  alle gambe addosso una vetrina (mi salvò dall’essere ucciso un manipolo di  americani nel paese e l’ufficiale, o caporale che fosse, dette una potente  sberla a Nerone Cella, mio principale carnefice, che lo salutava con il pugno  chiuso), e di imporre al pubblico ministero con le leggi dell’occupazione,  maggio 1945, di assicurarmi la pena di morte.
    A quella richiesta abbozzai un sorriso nervoso di incredulità e di terrore.  Nell’aula salì un grido sanguinario “bieco, bieco”; anche sul giornale il  giorno dopo si leggeva “con bieco cinismo…”; interpretavano il mio sorriso  nervoso come una sfida. Il giudice, ammonitomi per essermi tolto giacca e  camicia in aula perché notasse le condizioni del corpo, senza un testimone  contro o a favore e senza una prova sul mio presunto operato durante la  Repubblica Sociale Italiana, mi condannò all’ergastolo.
    Ma, tra gli aguzzini, due annegarono nell’Adige, uno travolto in motocicletta,  e il mio “preferito”, Nerone Cella, sbattuto in galera per violenza carnale e  rapina a mano armata. Questo ladro di galline e criminale cominciò ad avere  visione di cristi e di madonne e con l’assistenza della chiesa vide anni prima  di me la libertà per riprendere la carriera di ladro e di criminale fino alla  fine della sua miserabile vita. È la storia della cosiddetta resistenza. Ammetto che vi  sono stati, e vi sono tuttora, comunisti gentiluomini, alcuni conosciuti con  amicizia, tuttavia riporto la brutalità e la vigliaccheria in generale con il  disdegno dei miei versi scritti nel 1947:
Mi condannate
        mi spaccate le ossa ma non  riuscite
        a toccare quello che penso  di voi:
        gelosi della intelligenza e  del neutro
      coraggio aggredito… 
e con quelli del 2005 che chiudono il volume Paradigma:
Io che stupefatto mi trovo
        arreso a questa vita  scalcinata
        non mi sgretolo quanto  l’antico
        casolare che abitate – qui
        amebe infelici
        vi scambiate in gente plebea  per divulgare
        il mito vile di voi
      vili anche di volto. 
E  l’Italia della sinistra continua a dare del “fascista” a chiunque non si adegui  alla sua ideologia, dimenticando che da oltre sessant’anni predica. Il fascismo  predicò la propria ideologia soltanto per vent’anni.
    Alla mia scarcerazione, 1951, già consideravo la politica una calamità. E  mentre ero in Italia, o a Parigi dove frequentavo gli ambienti di Saint Germain  des Prés e Montparnasse, o nella Spagna di Franco, dove ero stato introdotto  nell’ambiente anarchico clandestino di Barcellona, ebbi un paio di  disavventure. Qualche anno dopo mi sarei arenato nella città di New York.  Seguivo una anarchia mentale libera da costrizioni. Mi consideravo da sempre un  apolitico: monarchico fascista repubblicano comunista liberale socialista =  anarchico, senza mai il desiderio di dinamitare luoghi e gente.
    Quei paesi indubbiamente devono aver influito, non saprei quanto e come, sulla  mia intelligenza, e en  passant sulla mia poesia; assolutamente zero sulla mia politica. La  verità è che io, non seguace del voto, ho opinioni piuttosto deleterie: i  politici d’ogni genere e degenere, sia che fingano di rappresentare i plebei,  sia che siano tutti corrotti dalle corporazioni, sono vili e ladri. Di loro ho  una opinione illimitatamente cinica. Culturalmente anarchico disciplinato,  soltanto socievole con chi mi va di esserlo, Jai  lu tous les livree, almeno tutti quelli che riuscii a leggere, e  qualcosa deve aver penetrato la mia elegante selvatichezza. Perciò posso  confermare che da cinquantacinque anni la mia esperienza culturale è  internazionale.
RB. La tua poesia, spesso appassionata e sarcastica al contempo, si misura con l’amore, il sesso, la religione, il difetto di libertà, ecc. Qual è la tematica che senti più tua?
ADP. Pare  sia Amore = Sesso.
    Un amico gay svizzero, con il quale frequentavo l’Academie Julien, nel 1952  d’improvviso e senza un precedente motivo, mi chiese ad Argenteuil, proprio a  casa di mia madre dove ogni domenica andavamo a sfamarci per bilanciare la  nostra settimanale dieta di banane e birra, se ero più interessato al sesso  oppure alla spiritualità. La sua curiosità era normale in quanto lui alla sera  frequentava il suo ambiente ed io il mio. Lo sconcertai con la risposta  repentina: sesso. Che però per me deve avere un legame con l’amore. Se anche  l’amore significa spiritualità, allora sono anche spirituale. Ma ugualmente il  mio cervello non sentiva vedeva e desiderava altro che sesso, ma da innamorato.  A me stesso davo l’impressione di essere l’affamato. Lo ero in prigione, e in  libertà benché ne avessi a scorpacciate, continuamente invasato, mai  abbastanza, seppure fossi sfinito. La detenzione ebbe il merito di avermi  appena diciottenne condannato psicologicamente all’appetito sessuale intessuto  di miti e icone religiose, soprattutto il crocifisso, simbolo di tortura di un  uomo giovane che sprigiona amore. Quanto a me, abolito il confronto, sono per  sempre il simbolo dell’adolescente seviziato.
    Che io sia un romantico? Lo sono in privato, non nella mia arte. Ecco la mia  tortura fisica, psicologica e mentale: la tematica amore = sesso, che invade la  mia poesia. Certe composizioni erotiche, mai volgari, per chi le legge  letteralmente appaiono blasfeme. Invece, se lette attentamente, si percepisce  la simbologia della mia spiritualità: amore = sesso di potenza e di  liberazione.
    “Il difetto di libertà” nel mio lavoro dev’essere all’inizio; nella prima  raccolta, La buia danza di  scorpione, compilata nei penintenziari di Procida e Civitavecchia  dal 1947 al 1951 e che, organizzata anni dopo, la inserii nel volume  mondadoriano Sessioni con  l’analista ma per prelevarla all’ultimo momento dalla stampa. La  consideravo differente in materiale e in stile. Comunque da cinquantacinque  anni so che mi sentirei libero sotto qualsiasi dittatura. Quella staliniana, ad  esempio, che auguravo e auguro ai comunisti italiani ideologicamente facinorosi  tipo il defunto intellettuale Franco Fortini e tipo il melenso Fausto  Bertinotti. A costoro consegnerei personalmente pala e piccone, o falce e  martello, perché si guadagnino il vivere onestamente. Dopo sessantacinque anni  di pseudo democrazia uno si sente obbligato a fare una scelta ideologica, intesa  quella comunista. Infatti, seguita a sciacquare la mente degli operai e degli  studenti prigionieri di sindacalisti e insegnanti scadenti, e ha la faccia di  merda di accusare, fascista!, chi non è comunista. Come per dire che il  comunismo è “libertà”.
RB. Quale consideri, tra i tuoi libri, quello più impegnato politicamente e socialmente?
ADP. Socialmente? Pare sia il libro mondadoriano, Sessioni con l’analista, compreso da Vittorio Sereni che lo pubblicò, ma che resta più o meno incompreso, nuovo, diverso e fuori dai gangheri usuali, dai pochissimi recensori che non seppero come trattarlo o che lo stangarono. Ripeto, pare socialmente, mai politicamente, perché nel 1970 lo suggerì il traduttore americano I. L. Salomon nella sua introduzione. L’impegno sociale, se c’è, è involontario e mi dispiace che ci sia.
RB. La liricità della tua scrittura è composta, ma riguardo l’aspetto della soggettività mi sembra che, a differenza dei poeti “civili”, il tuo “io” solo raramente possa essere inteso come un “noi”. Sei d’accordo?
ADP. Il mio “io” quanto il ‘tu” significa realmente “io” e “tu” – il quale “tu” significa “lei” che significa donna = amore = sesso = spiritualità = terra = natura, tutto al femminile. Mai “noi”. Se nel mio lavoro c’è un “noi” è una bestemmia, oppure il testo mi obbligò ad usarlo. Tuttavia quel “noi” significa ugualmente “io” e “tu”, il mio “io” e il “tu” implica la “mia” e la “sua” fisionomia terragna, che implicano il significato femminile universale del “noi” = “io” e “lei”.
RB. Ma proprio questa “donna”, che è anche “terra” “natura”, è una sorta di sineddoche che rende “civile”, nel senso di “universale”, la tua poesia. Quando ciò accade tu, sia pure indirettamente, sei un poeta civile, basta pensare a quanta indignazione, eretica e ironica, pervade molti tuoi versi.
ADP. Se mi interpreti “civile” per ritenere la “donna” “terra” “natura”, cioè “universale” il mio sentire e la mia visione, accetto. Vedi, quando poco fa mi credevo accusato di essere un poeta civile, ho visto subito le variazioni: diritti civili, guerra civile, morte civile, stato civile, ecc.. Quei soprusi purtroppo li ho conosciuti. Per questo dicevo che non sono poeta “civile”. Si dice che il tale è civile, che il tal’altro è incivile. “Noi”, gente, ci crediamo prescelti “civili” dal creatore, già inventato prima ancora che arrivassero gli scimmiotti progenitori i quali, con le foschie della mente continuamente coinvolta a sottrarsi dal pericolo, arrivano alle epoche moderne – ecco che “noi”, gente bruta e malefica, oltre a crederci prescelti ci autorizziamo di fare man bassa, far progredire la natura. Francamente, sin dai primi lumi di ragazzo “bastardo” emarginatosi dai prescelti e da quel progresso, mi sono intuito nella fertile femminilità creativa della donna = terra = natura.
RB. In che relazione ti senti con il simbolismo, allora? E con le avanguardie storiche?
ADP. Il mio  gusto, non lo studio, rifiuta la poesia ottocentesca italiana e quella  crepuscolare. Perciò mi sono rivolto, da prigioniero, a quella francese,  assistito dall’amico Ennio Contini.
    Non saprei dire in che relazione mi senta con il simbolismo. Di sicuro amo  alcuni simbolisti più di altri, e se c’è una relazione con uno di loro, bene,  vuol dire che sono stato più intelligente di quanto mi credessi. Infatti, anni  dopo nella Parigi del 1952, scoprii il volume De Baudelaire au surréalisme di Marcel  Raymond (lo posseggo tuttora, scollato e stracciato dall’età), che nella mia  testa primitivistica e anarchica di ignorante mi aprì universi che se fossi  rimasto in Italia non avrei mai incontrati. Mi si indichi il lavoro di un  “poeta” italiano dell’ottocento che sia in relazione con il simbolismo  francese. Per me quell’epoca italiana, fino ai primi anni del 20mo secolo, si  presenta con salici piangenti e trombe. Ancora adesso perseverano trombette  trombe e tromboni, che penso non vogliano conoscere i propri nomi per evitare  d’incontrarsi nel mio elenco.
    Apprezzo in parte la poesia cubista, dadaista, e surrealista. A Castelfranco  Veneto, nel 1961 durante il festival internazionale di poesia, incontrai  Tristan Tzara e, essendo il solo apparentemente che ci tenesse a conoscerlo,  per quasi tre giorni conversai con lui; i neo-avanguardisti, e il resto,  correvano dietro a rumene e rumeni liberi di dover stare incollati ai loro  commissari comunisti. Se nel mio lavoro c’è una relazione, c’è perché quelle  avanguardie storiche sono cresciute da bocche rimaste interessanti. Rifiuto  totalmente le neo-avanguardie rancide italiane degli anni ‘60: è zavorra, lo  dico senza dovermi pentire; c’è abbastanza insensatezza da far ridere persino i  bagonghi del circo. Tutte quelle fiacche e subito datate cartucce che spararono  a zero, e tutte quelle più o meno recenti aride che si sparano addosso, non  ammettono che l’avanguardia potrebbe trovarsi anche nella poesia formale con  tanto di rima. Il dado l’ha tratto, ma Mallarmè scriveva in rima. Voglio dire  che avanguardia, oppure originalità, è nel testo, non nel modo in cui si stende  sulla pagina il vocabolario tra virgole virgolette parentesi, ecc.
RB. I poeti di Accademia da molti anni ormai fanno quadrato nel distruggere la poesia e nell’emarginare i poeti “espressivi”. Tu, come vittima, ne sai qualcosa. Ebbene, quali pericoli possono comportare, per la poesia e per gli uomini, questi versificatori accademici, questi trafficanti di morte verbale?
ADP. La  mediocrità esiste da sempre, consacrata ad ogni generazione e stagione. In  parte è il gusto prevalente dei chiamati a dirigere i cimiteri della poesia,  talvolta a umiliare anche volontariamente chi scrive in un individuale canone.
    Esempio di un emarginato dal generale criticume: Dino Campana. Eccetto per quei  rari, come Enrico Falqui, che lo individuarono quasi subito, o subito dopo la  sua morte in manicomio, il resto della critica e degli addetti lo lasciò quasi  ignoto fino agli anni ‘60. Già, è un matto. Nel 1961 lo menzionai a Vittorio  Sereni, il quale, onesto e uomo sincero, ammise che Dino gli era rimasto nel  dimenticatoio, impegnato com’era a badare con dei contemporanei rompicoglioni –  proprio così disse alla fine di una giornata di lavoro negli uffici deserti  quando il telefono squillava senza rispettare l’orario e Vittorio rispondeva  stizzito. “Non badare a me, Vittorio”, dicevo; “no, sono sempre gli stessi  rompicoglioni, giorno e sera!”. Da quel momento se l’è ricordato. Alla fine  Dino ce l’ha fatta a scavalcare le trincee delle editorie e piazzarsi con un  “oscar” nel mondo della cultura e delle miserabili antologie di trombette  trombe e tromboni che seguono a strombettare con rigore osceno. Per darti  un’idea: ci sono volumi di “meridiani” dedicati a un trombone ideologico della  sinistra, e non ce ne è uno dedicato a Campana.
    Per forza sono un emarginato. È impossibile che uno come me non lo sia. I  motivi sono uguali a quelli già considerati. In più c’è che non sto zitto; che  vorrebbero zittirmi con il loro silenzio sul mio lavoro per il mio pseudo  “compromesso politico” di adolescente. Pensa che nel 1998 un “operatore  culturale” della mia cittadina, Legnago, dalla fronte pelosa quanto i suoi  compagni di rifondazione comunista, con una lettera sul giornale L’Arena di Verona contro  la mia presenza, già dal 1955 esonerata e archiviata, mi figurava a diciassette  anni un gerarca della RSI. Vorrebbero intimidirmi non scrivendone neanche  negativamente. Se ne scrivessero si capirebbe che lo farebbero perché aizzati  da me, come faccio adesso, o da chi… Non se lo permettono: un cerino di  furbizia li abbaglia a non stroncare il mio lavoro per evitare la figuraccia  totale. Più di così non possono essere bassamente luridi. Perché sin dai primi  scarabocchi da moschicida si accorgono di essere posseduti dalla bile, di  essere ceneri di seppelliti intracciabili nelle antologie e vari cimiteri  curati da becchini dipendenti. Hanno l’ambizione sbagliata dei falliti  dall’animo lurido. Per quanto mi riguarda, non soffro di gelosie e invidie,  lavoro per la poesia di altri poeti, e quel poco che mi è riconosciuto me lo  sono guadagnato con immensa fatica. Non c’è grande e piccolo editore che si  vanti dell’onore di avermi rifiutato, non ho mai proposto il mio lavoro, caso  mai hanno tutti il disonore di relegarmi nella indifferenza. Eccetto per la tua  recente iniziativa e insistenza di propormi alla critica, ho la pretesa che la  manna rosa delle case di tolleranza editoriali debba scoprirmi. Inoltre mai  nessuno può accusarmi di ambizione sbagliata. Non ho mai chiesto e non chiedo  favori a nessuno, e nessuno mai mi legge ai vari premi ai quali non partecipo.
    Al premio Viareggio dei 1967, opera prima sottoposta dalla Mondadori, non  premiarono l’opera Sessioni  con l’analista, finalista fino all’ultimo, perché allora si  premiavano gli arrampicatori della cuccagna comunista – sfido chiunque,  malgrado le false apparenze democratiche del mondo intellettuale, a giudicare  adesso l’opera vincitrice con la mia senza “ideologia”.
    A un altro premio che vinsi nel 1988 vi partecipai perché invitato.
    So che tutti coloro coscienti della propria scarsezza, nel blocco degli eletti  e nel blocco delle pecore, si riconoscono senza sorpresa nella esplicita  didascalia all’inizio del volume Paradigma. Nel caso che nessuno l’abbia letta la ripeto qui:
Sono dannato a fissarvi negli occhi di roditori
      poetucoli destinati a  rosicchiare la vostra identità di amanuensi. 
Se io le mollo, accetto di prenderle.
    Ma c’è una differenza profonda che ci separa: io, con pochi altri, generoso,  che amo e rispetto davvero la poesia, onesto e simpatico con tanto di prove;  loro generosi nello scambio, avari falsi gelosi invidiosi, e antipatici musoni  con tanto di prove; tutti giudicati dal tempo che setaccia la sabbia, scarta il  marciume, seppellisce le immondizie, e brilla con il poco su cui vale fermarsi.
    Io e la mia arte non abbiamo fretta.
RB. Prima parlavi di Campana “vero poeta”. Naturalmente concordo, ma basta per te a farlo grande? Io lo reputo, proprio per il suo canone, un epigono. Con ciò lo proteggo e sostengo per la potenza della sua poesia, che però, in questo opposta alla tua, è più visionaria che umana.
ADP. Per fortuna è il suo proprio epigono. Rimane l’unica propria esperienza incontrollata eppure cristallina e nel suo modo controllata. È l’istinto dell’artista visionario. T’immagini tante campanelle imitatrici di Campana? È un poeta da non imitare. Confrontando la sua poesia alla mia dici che la sua è opposta alla mia, più umana. Spero non lo sia, preferisco averla feroce dell’animale dolce che ha il proprio canone, cioè l’istinto; perciò, se il poeta è un artista, possiede il candore e il canone dell’animale.
RB. Paradigma è il titolo del libro che raccoglie tutta la tua poesia fino al 2005 ed è ripreso da un tuo libro del 2001. Puoi spiegare questo titolo?
ADP. Sí, lo  spiego più avanti.
    Il libro del 2001 con alcune recensioni positive è passato inosservato e non  distribuito per disinteresse dell’editore o tipografo che sia. Permettimi  allora di arrivare al finale enigma del titolo raccontando in breve un evento  in cui non vi era un altro “animale”.
    Invitato a recitare tre mie poesie a una conferenza sui canoni della poesia  italiana contemporanea, quel giorno fin dall’alba non mi sentivo bene. Tuttavia  da giorni avevo deciso di mancare all’appuntamento per evitare il traumatico  scossone che mi ero ripromesso di combinare leggendo, non le poesie già  stampate nel catalogo della giornata, ma la pagina che avrei scritto per  l’occasione. Perché attirarmi addosso l’inimicizia inutile di inutili? Infatti,  il mattino dopo, alle otto, al telefono mi si chiede cosa mi avesse trattenuto  a casa. Non dico la verità originale, ma l’altra verità più facile da dire: non  stavo bene. Mi si suggerisce di parteciparvi quel giorno, 28 ottobre. “Va bene”  rispondo, “faccio la mia marcia”.
    Nel teatro dichiarano pagine sui canoni.
    Durante una pausa riconosco delle persone e ci salutiamo. Non conosco altre,  provenienti dall’Italia. Nessuno ci presenta ed io, carogna di snob arrogante  quando mi necessita di esserlo, sto alla larga. Alla ripresa la moderatrice  m’introduce al pubblico. Alla fine della mia breve recita, inizia un elenco di  interminabili versificatori. Ascolto esterrefatto.
    Al termine della conferenza mi si chiede quale specifico significato abbia il  titolo della mia opera Paradigma. Colgo l’inaspettata occasione per rispondere alla tua domanda,  riprendendo in maniera diversa il filo di quello che mi ero promesso di dire:
    “Ho ascoltato oggi tutta la poesia casalinga che si possa ascoltare. Paradigma significa  semplicemente esempio per  i cosiddetti poeti italiani che dovrebbero leggermi e imitarmi”. La moderatrice  commenta sulla mia presunta modestia. “È vero, troppa”, rispondo ridendo. Con  anticipata soddisfazione mi accorgo che i presenti, benché incuriositi, mi  evitano.
RB. Che differenza riscontri tra il mondo degli autori italiani in Italia e quello, ridotto, degli autori italiani in America?
ADP. Veramente,  con il mio comportamento antidiplomatico, insegno una lezione poetica al mondo  dell’omertà della poesia italiana residente in Italia. Una voce sibillina mi  ispira la lezione.
    Si dice che il manipolo di scrittori italiani che vive e lavora negli Stati  Uniti sia deriso e non rispettato dall’esercito di “poeti” che vive e muore  sulla carta in Italia; e che l’esercito, in questo caso più ignorante che  ridicolo, si è autoeletto superiore al manipolo. È probabile che resti un  sussurro, e basta. Ma lo stesso necessita la chiarificazione seguente:  l’esercito di Caporetto, fasciatasi con pezze da piedi la testa piena di  vanvere, troppo spesso usa il manipolo perché questo brighi e si sbrighi a  pubblicare in versione americana nelle nostre riviste e in libri le loro meningiti  che ancora troppo spesso si rivelano statiche cascate di vocabolari.
    L’esercito non apprezza che il manipolo si dedichi, senza chiedere scambi, a  far conoscere la poesia italiana, la quale, nonostante la nostra passione e  generosità di umiliati, rimane umiliata e difficile a farsi valere in questo  continente che tende ad ignorare l’opera straniera. Io ne so qualcosa come  Chelsea Editions, e ne sa qualcosa Luigi Fontanella con la sua Gradiva  Publications. Ma vale insistere? Sí, senza dubbio, anche se l’esercito disdegna ciò che è dovuto.  Non so cosa i miei colleghi in America pensino. Ma io, condiscendente, con  fermezza dico che se va tutto bene la parte migliore dell’esercito si pareggia,  tecnicamente, ma con scadente esito di poesia, con quella del manipolo che ha  più vasta conoscenza di vita. È che l’esercito non ha niente da dire in quanto  non ha niente da dire, barricato com’è nel suo vuoto. La poesia è vera, non  quando la si narra o la si descrive a vuoto, ma soltanto se c’è del vissuto che  si svela in immagini saltellanti sulla pagina. La poesia è o non è. Confermo  che il più della poesia calcante il canone o i canoni stabiliti, e quella che  calca una pseudo avanguardia ottusa di sciocchezze, sono orrende quanto  l’aborto, oppure, meno crudele, sfociano in quello stesso risultato: il  fallimento.
    Da qui ti fai una idea che io, benché schiaffi lì e calci là, amo e difendo la  poesia del blocco degli eletti e di quello del gregge. Dipende. Però sono  cosciente delle mie sconfitte contro i mulini a vento, sconfitte che mi  accelerano la volontà di appellarmi alla giustizia della poesia anche in nome  di chi, in disparte, non grida o bela lo scandalo, e lascia aggrandire il  nulla. Qualche rara persona assisterà. Qualche critico onesto. In attesa,  democraticamente incito quell’esercito di spenti mulini a vento di smettere di  sventagliare aria e a limitare l’annientamento delle foreste.
RB. Bene, caro Alfredo, l’intervista è giunta al termine, lascio a te l’ultima parola.
ADP. Questa intervista, per la quale ti sono riconoscente, contiene un po’ di tanti pensieri, intuizioni, lecite esagerazioni, vicende della mia esistenza priva di vocaboli patetici. Non scherzo se ripeto che la mia lezione è validissima ai presunti poeti di casta e di espressione casalinga. Ai quali, non appena terminato di leggere con rabbia e invidia l’intervista e i saggi, consiglio di aprirsi al vero, seguendo, magari di nascosto e insultandomi, l’esempio: il mio PARADIGMA.